PROFEZIA…
PROFEZIA… è andato in scena in prima assoluta, il 3 e 4 dicembre 2022 al Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena, regia impianto scenico, video e luci Carlo Fiorini, Trucco Gherardo Filistrucchi.
Alcune foto
Riportiamo qui sotto alcune foto scattate in occasione della prova generale, prima e replica di Profezia.
Profezia…
Rappresentazione in musica e parole su testi di Pier Paolo Pasolini e Sandro Cappelletto
Musica di Matteo D’Amico, Enzo e Lorenzo Mancuso
Voci e strumenti etnici Enzo e Lorenzo Mancuso
Soprano Sabrina Cortese
Voci narranti Alessandra Arcangeli, Sandro Cappelletto
Interprete nei contributi video Raschid Karmoud
Direttore M° Stefano Seghedoni
Regia, impianto scenico, video e luci Carlo Fiorini
Aiuto regia Massimo Giordani
Si ringrazia Elio Jack Beccegato, artista visuale, per la sua partecipazione alla creazione dei contributi video
Ensemble Strumentale del Teatro Comunale di Modena
Violino Michaela Bilikova
Violoncello Silvia Chiesa
Clarinetto Stefano Borghi
Fisarmonica Saria Convertino
Nuova commissione
Fondazione Teatro Comunale di Modena
In collaborazione produttiva con Fondazione Paolo Grassi o.n.l.u.s.
Prima rappresentazione assoluta
Direttore di scena Marina Meinero
Maestro alle luci, alla fonica e ai video Carlo Alberto Colombini
Responsabile allestimenti e palcoscenico Gianmaria Inzani
Tecnici macchinisti Catia Barbaresi (capo macchinista), Jacopo Bassoli, Mauro Brecciaroli, Paolo Felicetti, Alessandro Gobbi, Antonio Maculan, Andrea Marseglia, Filippo Parmeggiani, Bianca Bonora (aiuto macchinista)
Tecnici elettricisti Andrea Ricci (capo elettricista), Raffaele Biasco, Alessandro De Ciantis, Andrea Generali, Daniele Giampieretti, Marcello Marchi, Mauro Permunian
Tecnico audio-video-fonico Francesco Morri
Attrezzista Lucia Vella (referente)
Sartoria Alessandro Menichetti (referente)
Scene Fondazione Teatro Comunale di Modena
Trucco Gherardo Filistrucchi
Sopratitoli Enrica Apparuti
Dal programma di sala dell’Opera
T’insegneranno a non splendere.
E tu splendi, invece
di Sandro Cappelletto e Matteo D’Amico
Negli anni Sessanta del secolo scorso, prendendo spunto da un racconto di Jean-Paul Sartre ambientato al tempo della allora recentissima guerra combattuta dall’Algeria per ottenere l’indipendenza dalla Francia, Pasolini scrive un testo che chiama Profezia. Protagonista è un personaggio immaginato da lui come un nuovo possibile redentore della nostra umanità stanca e impaurita: “Alì dagli occhi azzurri / uno dei tanti figli di figli, / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi.
Saranno / con lui migliaia di uomini / coi corpicini e con gli occhi / di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, / e il pane e il formaggio…”.
Nelle riflessioni, nostre e con Enzo e Lorenzo Mancuso, è emerso il desiderio di avviare con Profezia un dialogo serrato, quasi stessimo scrivendo al suo autore una lettera fatta di parole, canto e musica per,
se così possiamo dire, aggiornarlo, nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita, mentre quasi mezzo secolo – ormai – è trascorso dal suo assassinio. Per interrogarlo, per chiedergli se abbia davvero pensato che potrà mai esistere un ‘Alì dagli Occhi Azzurri’. Quando immaginava Alì, Pasolini pensava a una vicenda che connota l’essere umano: pensava ad Adamo, il primo dei viandanti, a Cristo, che se ne va di casa prendendo bisaccia e sandali. E attendeva i tanti Alì venuti a incrociare con le nostre le loro vite, le speranze, le attese, le sconfitte, i lutti. Mantenendo una speranza ‘Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante.
Sii allegro. T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece’.1
Uno splendore che potrà illuminarci solo nel segno dell’essere fratelli. Se il tema portante di questa ‘profezia’ pasoliniana è quello dell’incontro con l’altro da sé, la musica non può seguire altra via che quella dell’accostamento di esperienze diverse, contemporanee e arcaiche, unite dalla comune radice di un sentimento umano che parla attraverso il melos, inteso come universale categoria espressiva. Una musica ricca di intensità e di pathos: questo il punto che permette di unire le due linee parallele che camminano assieme durante tutto lo spettacolo. Diverse quindi le vie, le storie, ma un obbiettivo comune: dare voce alle speranze, agli aneliti, alle sofferenze e alle gioie di chi crede possibile un futuro di com/passione. Affidata ad un soprano lirico, quattro strumenti (clarinetto, violino, violoncello e fisarmonica) ed elettronica su supporto, la musica di Profezia vive per lo più in funzione della parola recitata, configurandosi il testo come un grande melologo, interrotto da frequenti ‘isole’ di canto, ora dei fratelli Mancuso, ora del soprano, che intona alcune fra le più celebri poesie pasoliniane.
Note di regia
di Carlo Fiorini
Profezia… Siamo fra il 1963 e il ’64, il mondo ha sfiorato l’Armageddon con la crisi dei missili sovietici a Cuba, in Italia inizia il tempo di una nuova storia, quella che porterà il paese all’austerity, la crisi del petrolio, all’inflazione galoppante degli anni 70: la storia che Pasolini conoscerà fino al 2 novembre del ’75. Il 7 marzo del ’63 Papa Roncalli, il ‘Papa buono’, riceve in udienza privata Aleksej Adzhubej, direttore del giornale Izvestija, organo del Partito Comunista russo, in compagnia della moglie Rada, figlia di Nikita Krusciov segretario generale del Partito Comunista Sovietico. In pochissimo tempo la notizia gira e raggiunge oltre agli attoniti monsignori il mondo intero, che sconcertato si domanda per quale motivo il tempio della cristianità accolga e la famiglia simbolo del comunismo russo. Pochi giorni dopo Papa Giovanni XXIII pubblica la sua enciclica Pacem in Terris riconoscendo per la prima volta la chiesa come ‘Popolo di Dio’ e rivolgendosi per la prima volta a ‘tutti gli uomini di buona volontà’ credenti e non credenti, per affermare un mondo senza confini e senza blocchi, per ricercare ciò che unisce, tralasciando ciò che divide. In quegli anni Pier Paolo Pasolini lavora e pubblica Poesia in forma di rosa, che contiene, in una singolare nidificazione, il Libro delle croci, che a sua volta ospita Profezia, una poesia probabilmente già scritta nel ’62, nella quale si narra di popoli africani e asiatici che ‘dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri […] distruggeranno Roma / e sulle sue rovine / deporranno il germe / della Storia Antica. Poi col Papa e ogni sacramento / andranno come zingari / su verso l’Ovest e il Nord / con le bandiere rosse / di Trotzky al vento…’.
Profezia… Nel 2015, sbarcano sulle coste europee 1.015.078 persone e più di un milione e trecentomila migranti chiedono protezione internazionale all’Europa (dati Unhcr). È l’anno della crisi dei rifugiati. Verranno per fuggire, per sopravvivere ai conflitti e alle catastrofi umanitarie dell’Africa e del Medio Oriente. È in questo anno che, Matteo D’Amico, Sandro Cappelletto, Enzo e Lorenzo Mancuso, si incontreranno incrociando le loro arti, per la genesi di ciò che diventerà il nucleo centrale di questo spettacolo, un dialogo appassionato con Profezia scrivendo al suo autore una sorta lettera fatta di parole, canto e musica per aggiornarlo sul nostro presente, per raccontargli degli Alì dagli occhi azzurri venuti ‘per insegnare come si è fratelli’.
Profezia… 2022. Anno del presente. Un presente spietato, a tutti noi noto, almeno nelle nostre veglie, a volte negli incubi. E anche l’anno del centesimo giro attorno al sole dopo la nascita del più grande poeta del nostro Novecento che ancora ci interroga con le sue visioni, e almeno, lo si celebra. Il Teatro Comunale di Modena lo fa commissionando questa nuova produzione ai suoi autori Matteo D’amico e Sandro Cappelletto che a loro volta mi coinvolgono. Inizia così la mia avventura con un’opera ispirata da Pasolini e a lui dedicata. Uno sguardo sul presente per scorgere un riflesso nello specchio della nostra storia – se ancora abbiamo una ‘storia’ – della sua poetica.
Le profezie sono invisibili, solo quando realizzate si riconoscono. Prima sono incomprensibili, inutili, e come la saggezza si rivelano troppo tardi. Sono uno specchio rotto della realtà, frammenti con diversi angoli di incidenza che spezzano la visione rendendo impossibile la sintesi. Ora più che mai il tema della fratellanza, l’urgenza del lutto di una parte di sé per accogliere l’altro, per creargli spazio e rischiare la pace attraverso una piccola perdita della nostra ‘sovranità’, davvero ci sorprende. Come una profezia necessaria per ricomporre i frammenti dello specchio che si è rotto nella scissione fra Occidente e Oriente, fra fratelli di antichi padri, per sopravvivere a ‘questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere’.
Il Libro delle croci da cui proviene Profezia è l’ultima sezione di Poesia in forma di rosa. Sono calligrammi a forma di croce. Una forma archetipica prediletta da Pasolini: la sua prima proposta di tesi, poi rifiutata, dal suo maestro Roberto Longhi, è sulla pala d’altare Miracolo della Croce di Antonio de’ Sacchis nella chiesa di Santa Croce di Casarsa della Delizia; col segno della croce fa morire Accattone nel suo primo film; sulla croce del ladrone, per una indigestione muore Stracci, protagonista di Ricotta; con le braccia legate a croce muore Ettore in Mamma Roma, e poi ancora le croci de Il Vangelo secondo Matteo. Ma io credo, per una personale visione forse non condivisibile, che per Pasolini la croce non è il luogo del sacrificio, ma il punto di incontro di due bracci che definiscono il vuoto della condizione umana. Un braccio, forse quello verticale, del rapporto fra sé e altro da sé, fra io e mondo, in continua dialettica; quello orizzontale, definito dall’eterno conflitto fra conscio/inconscio, alto/basso, morale/immorale, positivo/ negativo, piacere/dolore. Questi due confini della condizione umana definiscono uno spazio vuoto, con un centro messianico, dove tutte le istanze e i loro opposti si annullano in un continuo conflitto. Dal suo squilibrio emergono come epifanie le istanze della condizione umana. Credo che questo vuoto in Pasolini rappresenti lo spazio del poetico, l’origine prelinguistica dell’essere, quindi lo spazio del sacro in tutta sua la potenza di ambiguità, ambivalenza e paradosso. La croce, quindi, non come il luogo del sacrificio, ma come il simbolo di una condizione profonda e originaria di tutta l’umanità, che tutti condividiamo. L’opera di Matteo D’Amico e Sandro Cappelletto, oltre a quel nucleo che racconta il grande nomadismo dell’umanità, di tutti i tempi e di tutte le epoche, si interroga sui temi della pietas e della solitudine, ispirandosi all’intera testimonianza di Pasolini. In questa chiave ho immaginato di mettere in scena lo spettacolo. Dallo specchio rotto della profezia, ma anche nello specchio rotto della percezione che abbiamo del mondo (nelle nostre vite immateriali, il nostro ambiente social, profilato e assistito da intelligenze artificiali) si genera lo spazio poetico a forma di croce dal quale evocare un’anima interrogante che prima di noi ha saputo stare in quell’indicibile dichiarandolo.
‘Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo, né cascare per sempre sulla terra di Dio’.